Quando chiedo a Tommaso Bellazzini, il neoallenatore della prima squadra del Siena, di incontrarci per questa intervista in un posto della città che gli piace particolarmente, non mi aspetto che mi risponda il bar all’interno del chiostro della Chigiana. Non perché non sia un posto splendido, ovviamente, ma per la sua posizione un po’ defilata. Appena ci sediamo, quindi, gli chiedo subito il motivo di questa scelta: “Qualche settimana fa mi è capitato di avere alcune ore libere e sono venuto a fare un giro per le vie del centro. La città, come sapevo, è davvero incredibile, poi però mi sono addentrato in questo angolino qui e l’ho trovato davvero meraviglioso, tanto che mi è rimasto impresso”. “Ti era già capitato di visitare Siena in passato?”, chiedo quindi a Tommaso: “Sono venuto qualche anno fa a fare un weekend lungo con la mia compagna tra cantine e città”, mi risponde, “perché io sono un amante di vini e poi in generale mi piacciono le città d’arte, quindi era il luogo ideale”.
Di tempo libero, Tommaso Bellazzini, ne ha poco perché da ormai qualche mese ha il compito di traghettare i bianconeri attraverso la nuova stagione sportiva. Per cominciare, gli domando come è nato il suo avvicinamento alla società del Siena: “Ho preso i contatti con la società sul fine della stagione scorsa perché il direttore Simone Guerri lo conoscevo personalmente, sia perché eravamo nello stesso girone e quindi ci siamo incontrati da rivali, sia perché abbiamo giocato insieme tanti anni fa a Pistoia. A fine stagione scorsa lui, in rappresentanza del Siena, mi ha contattato e abbiamo cominciato a capire se c’erano i margini per andare avanti con la trattativa. Il dialogo tra me la società è stato lungo in termini gestionali, ma una volta arrivata la proposta la mia decisione di accettare l’incarico a Siena è stata quasi immediata”. Chiedo allora cosa lo abbia fatto decidere così velocemente: “Sicuramente il legame con Simone Guerri che so essere una persona corretta e poi i colloqui con i presidenti svedesi che mi hanno mostrato una dimensione di più ampio respiro. La loro visione a lungo raggio, un po’ atipica per queste categorie, abbinata anche al blasone della società mi hanno fatto sentire subito attratto da questa nuova opportunità. Avevo bisogno di sentire queste cose perché venire a vivere a Siena per me non è solo una scelta personale: con me io porto anche la famiglia e dovevo trovare un posto giusto e una situazione giusta anche per loro. Siena mi è sembrato subito un ambiente dove si può crescere bene, sia per la mia compagna, sia per i bambini”.
E di Siena bisogna continuare a parlare, perché ho saputo che proprio questo agosto il mister ha assistito per la prima volta al Palio in piazza e gli chiedo quindi le sue impressioni: “Il Palio io lo conoscevo, ovviamente, ma vederlo da una posizione privilegiata come l’ultimo piano di un palazzo in Piazza del Campo è stata una cosa enorme perché ho percepito davvero il pathos di tutta la mossa. Sentire quella tensione, quel silenzio e poi quel minuto e mezzo di boato è stato un evento che non dimenticherò mai. E poi la cosa che mi ha impressionato ancora di più, devo dire, è stato scendere giù e vedere in faccia le persone: i visi dei contradaioli che gioivano, adulti, anziani e bambini credo che mi rimarranno impressi per tutta la vita”. Aggiunge anche, a dire la verità, che quando si sposta per venire in centro a casa del suo vice, Nico Lelli, gli capita spesso di fermarsi a vedere i giri delle contrade e, ogni singola volta, ne rimane affascinato.
Non posso quindi esimermi dal chiedergli qualcosa di più sul suo rapporto con Nico Lelli, presenza nota al pubblico senese per aver già ricoperto il ruolo di vice-allenatore nel 2022/2023, al fianco di Guido Pagliuca. “Io e Nico”, mi spiega Tommaso, “veniamo entrambi da Pisa e ci eravamo incrociati perché frequentavamo un polo dove si ritrovano molti personaggi del mondo sportivo, ma a quel tempo eravamo in due momenti della vita molto diversi e non c’erano i presupposti per lavorare insieme, anche se lui stava già cercando da inizio anno un secondo allenatore. Devi sapere che noi veniamo da due percorsi opposti perché io ho fatto il calciatore professionista fino ai trentaquattro anni, lui invece, che è più giovane di me, ha iniziato ad allenare prestissimo, senza avere una carriera nel calcio professionistico alle spalle. L’anno in cui ci siamo incontrati non c’erano i presupposti per lavorare insieme ma ci capitava frequentemente di sentirci o di trovarci per parlare delle sue partite e analizzarle, quindi, di fatto già iniziavamo a collaborare in maniera informale. Poi, a gennaio di quell’anno il suo vice è andato via e io avevo finito, per una strana coincidenza, il mio contratto a Coverciano. Quindi abbiamo potuto davvero cominciare a lavorare insieme sul campo e lui ha subito riconosciuto in me un valore aggiunto, probabilmente legato alla mia maggiore esperienza sia come calciatore che proprio in termini di età. E, a prescindere dall’aspetto lavorativo, si è creato proprio un rapporto di amicizia profondo che si è ampliato anche alle nostre famiglie. Per questo, alla fine di quell’annata, avevamo capito entrambi che avremmo lavorato di nuovo insieme in futuro. Poi lui è andato a Montevarchi e io ho avuto la prima squadra del Ghiviborgo, abbiamo fatto le nostre annate, ci siamo affrontati da avversari e a fine anno si è presentata di nuovo l’occasione di lavorare insieme. Per me è stato un privilegio straordinario il fatto che lui abbia accettato di fare il mio vice, perché per farlo ha rifiutato panchine anche importanti. In generale sono molto orgoglioso di averlo con me ma ciò non vale solo per lui, ho molte figure davvero di alto livello nello staff”.
Domando allora a Tommaso Bellazzini cosa facesse a Coverciano e mi racconta che il suo percorso da calciatore si è concluso in maniera negativa, dopo aver raggiunto un livello di stress tale da rendergli impossibile continuare in quello che stava facendo. Aveva già deciso, mi dice, che alla chiusura della sua carriera nel calcio giocato, si sarebbe dedicato per un po’ alla ricerca, alla teoria sportiva in senso ampio. Per questo si trovava a studiare Coverciano, nell’attesa di capire che strada prendere nella fase successiva della sua vita. “Hai sempre avuto queste due esigenze – giocare a calcio e riflettere sul calcio –”, chiedo a Tommaso, “anche mentre facevi il calciatore?”, “sì”, mi risponde “e questo non è stato un bene. Mi capitava spesso di riflettere troppo, di mettermi lì a pensare il perché di alcune scelte del mister, i motivi profondi di alcune azioni. Questo mi toglieva molte energie come calciatore.” Di fatto, gli dico, era come essere già un allenatore: Tommaso è d’accordo, probabilmente c’era nella sua vita, una linea sottile, un’inclinazione che lo portava naturalmente a questo mestiere. Per questo, quando gli chiedo se, nonostante la sua giovane esperienza come allenatore, sente che è il ruolo giusto per se stesso, mi risponde senza indugio di sì.
Il calcio, mi dice Tommaso, è esistito in lui fin dai primi ricordi: “io, come tutti i bambini a cui piace davvero il calcio, ero letteralmente un malato di calcio: dormivo con la palla nel letto, giocavo con il muro finché mia madre non mi richiamava in casa, mettevo mia sorella in porta e tiravo come un matto, la mattina andavo a scuola a piedi con la palla e mi facevo la telecronaca da solo. E poi tifavo Milan, perché il mio babbo tifava Milan. Però poi diventando un calciatore professionista le cose cambiano, inizi a vivere il calcio dall’interno, lo conosci, ne ragioni e finisci per guardarlo poco e per tifare ancora meno”. “È una perdita, secondo te? Una cosa negativa?”. “No, mi risponde, non direi. È deformazione professionale, è un amore che semplicemente si trasforma, in qualche modo diventa forse più profondo, meno di pancia e più intellettivo”. Gli chiedo allora se la sua famiglia, in questo processo, sia stata o meno un ostacolo: “Sono una persona straordinariamente fortunata”, mi racconta, “perché la mia famiglia viene da un contesto intellettualmente molto alto: mia madre insegnava latino e greco in un liceo, mio padre è un ricercatore di fisica nucleare e i miei fratelli sono chi un matematico, chi ha studiato lettere antiche… quindi io ero un po’ quello strano. Loro però sono stati davvero grandi nel lasciarmi seguire il mio sogno, pur trasmettendomi la necessità dello studio e della preparazione in senso più ampio”. “Senti che farai lo stesso, come padre?” gli domando allora, “certamente”, mi risponde sicuro.
È evidente, dopo un po’ che parliamo, che nella vita di Tommaso Bellazzini ci sono due grandi poli: il lavoro, cioè il calcio, e la famiglia. Gli chiedo di dirmi se è così: “Sì, avrai capito che il mio carattere è quello della persona passionale nel vero senso della parola. Io sono fortunato, perché il lavoro che faccio è la mia passione, ma lo è proprio perché per me è un lavoro totalizzante, in cui metto davvero tutto quello che sono. La stessa cosa è la famiglia, sono le due cose per cui spendo tutto, chiaramente in modi e forme diverse. Do tutto, mi stanco, provo fatica, ma è perché credo fortemente che le cose più belle siano quelle più difficili, quindi va bene così: la fatica, la tensione, la pressione del mio lavoro sono il prezzo da pagare per quello che ho oggi e che cerco ogni giorno di conservare con tutta la passione possibile. Farò errori, sia come allenatore che come padre, sicuramente, però voglio poter dire che ci ho messo tutto”.
Non fatico a credergli, perché anche mentre parla Tommaso compie uno sforzo evidente nel cercare di dire quello che vuole dire con un’esattezza millimetrica, quasi maniacale. Si vede che è cresciuto in un contesto in cui non solo è importante pensare, ma lo è pensare bene, con profondità e attenzione. Mi muovo quindi verso la fine di questa intervista, chiedendogli della sua nuova squadra: “Sono un rompiscatole, per non dire di peggio, lo so, sono sicuro che lo pensano tutti loro. Chiaramente siamo ancora ad un mese e mezzo di lavoro insieme però vorrei coltivare piano piano un rapporto che credo sia la condizione necessaria per creare convincimento e coinvolgimento. È una cosa difficile perché bisogna rapportarsi in due modi diversi sia con i singoli che con il gruppo quadra. La mia ambizione è riuscire a tirare fuori le cose da loro, quindi devo conoscerli sempre meglio. È davvero un lavoro molto difficile, ma credo che stia tutto lì. Io mi rendo conto che li stresso veramente tanto, però credo che sia importante portare le persone verso i propri limiti, perché spesso non vogliono farlo. E per arrivare ai propri limiti bisogna avere coraggio e non tirarsi indietro… come si dice, whatever it takes, no?”.
Non so che percorso aspetta Tommaso Bellazzini e la sua squadra durante questa annata, ma posso giurare che raramente ho visto una persona così focalizzata e innamorata del suo lavoro. Whatever it takes.
Aurora Codogno