Quando Elena Proserpio Marchetti si era presentata ai giornalisti e alla città nella sala conferenze dello Stadio Artemio Franchi si era detta molto felice di essere a Siena. Aveva usato, in particolare, tre parole per definire ciò che l’aveva convinta ad accettare la proposta fattale dalla società bianconera: “cultura, conoscenza, tradizione”. “Poi c’è il piano del gioco”, aveva aggiunto, “e quello sarà compito mio”. Dopo la conferenza era scesa in campo e l’avevo osservata mentre cominciava a muoversi tra le ragazze della sua futura squadra. Era perfettamente nel ruolo, si rapportava alle calciatrici con la sicurezza di chi questo mestiere lo conosce molto bene, ma anche con grande ironia e attenzione alle parole. In quel momento, ricordo di aver deciso che avrei approfondito tutte queste impressioni durante l’intervista che stavamo programmando di fare. Quell’intervista, alla fine, l’abbiamo fatta sui sedili bianchi e neri della tribuna coperta, prima di un allenamento della squadra femminile. Durante tutta la conversazione, Elena ha guardato quello stadio, gli edifici che spuntavano da dietro agli spalti e poi San Domenico come si guardano le cose attese con ansia.
Le ho chiesto di cominciare dal racconto del percorso che l’ha portata fino a Siena. “Io ho iniziato ad allenare a Milano – mi ha detto – poi sono andata a lavorare in Costa Smeralda, dove mi occupavo di gestire un centro sportivo che aveva campi da calcio e da tennis. Lì avevo organizzato un torneo di calcetto ed erano venute le ragazze dell’Olbia. Avevo legato molto con loro e la presidente mi disse che stavano cercando un allenatore e che volevano che mi fermassi. Accettai subito e vissi un anno bellissimo; era il 2010”. “Il calcio giocato, per te, in quel momento, era finito?”, le ho chiesto. “La mia carriera da giocatrice è stata un po’, diciamo, raffazzonata, perché ho iniziato e smesso più volte: una volta, da bambina, perché mi ero ammalata, ma poi l’amore era così forte che ero tornata a giocare. Poi, una seconda volta, ho smesso perché avevo deciso che volevo viaggiare e studiare. Sai, all’epoca era difficilissimo per una donna vivere con il calcio. Ci riuscivano le più sveglie o le più brave e forse io non ero nessuna delle due. Però se ci penso, anche quelle che erano riuscite a farsi pagare bene poi hanno fatto tutte altri lavori, molte si sono laureate. Oggi per fortuna le ragazze possono vivere di calcio senza dover fare necessariamente percorsi paralleli, anche se spero che poi un percorso di studi lo compiano ugualmente. Insomma, io decisi di studiare e di viaggiare e iniziai a fare mille lavori in giro per il mondo: ho fatto la cameriera, l’istruttrice di sub, la traduttrice, l’insegnante di italiano a Berlino”. “Qual era l’obiettivo?”, le ho chiesto, “semplicemente conoscere. Conoscenza è la parola che amo di più”.
Tornando alle sue peregrinazioni, Elena mi ha raccontato che dopo Olbia si è fermata a Livorno, “semplicemente perché il traghetto faceva Olbia-Livorno, e lì ricordo che ho detto: mi fermo. Avevo deciso di sfruttare il fatto di essere laureata in Storia dell’Arte per fare la guida turistica ma nel frattempo ho trovato terreno fertile per tornare ad allenare e l’ho fatto, all’inizio, con i piccolini del Livorno”. A Livorno, Elena ha allenato molte squadre, mi ha raccontato, “una squadra di bimbe che avevamo iscritto ad un campionato di maschietti. Non sai quante ce ne hanno dette, ma puntualmente vincevamo noi le partite. Poi ho allenato una squadra di ragazzi africani, molti dei quali erano da poco arrivati in Italia. Di loro faceva parte Demba Thiam, che ora è il portiere del Monza”. “E poi hai allenato la Nazionale, giusto?”, “Sì, ho allenato le giovanili della Nazionale – under 17, under 19 e under 23 – e ho anche presenze in Nazionale maggiore. Praticamente, le ragazze che erano all’Europeo le ho allenate quasi tutte”. Elena ha citato l’Europeo che si è tenuto solo pochi mesi fa e non ho potuto non chiederle qualcosa a riguardo. Mi ha spiegato che secondo lei l’Europeo di calcio femminile di quest’anno ha raggiunto due obiettivi principali: quello di aver ottenuto una grande visibilità e quello del gradimento del gioco in sé. Abbiamo parlato molto di questo argomento, del paragone continuo – secondo Elena un tratto tipicamente italiano – tra il calcio maschile e quello femminile. “Ciò che si è diffuso dalla voce di Soncin quest’anno – cioè che non è stato l’Europeo di calcio femminile, ma l’Europeo femminile di calcio – è un’istanza che mi trova d’accordissimo e che io e molte altre portiamo avanti da tanto tempo. Il continuo paragone è completamente inutile, perché è scontato per una semplice questione ormonale: un uomo correrà sempre più veloce di una donna, ma il gesto tecnico – cioè il gesto specifico del calcio – bisogna saperlo fare e rimane bello in sé. Tecnica, allenamento, entusiasmo, passione, questi elementi sono gli stessi, non il resto”. Ho chiesto ad Elena se si può fare qualcosa per diffondere una narrazione più giusta a riguardo e mi ha risposto che qualcosa si può fare sempre, che qualcosa è già cambiato e che molto deve ancora cambiare.
“Se pensi alla te bambina, come eri? Come hai vissuto l’amore per il calcio?”, le ho domandato per cercare di capire dove nasce quel piacere di stare in campo e quella forza che Elena trasmette quando le si gravita intorno. “Da bambina ero molto gracile e il dottore disse a mia madre che dovevo fare uno sport come la ginnastica ritmica. Così cominciai ma finivo sempre per usare la palla non come attrezzo ma solo per palleggiare. A giocare a calcio in una squadra ho cominciato tardi rispetto a oggi, a 13 anni”. Le ho chiesto poi se i suoi genitori le sono stati un ostacolo o se hanno assecondato questa scelta. “Mio padre era felicissimo perché giocavamo insieme, mia madre è stata un po’ d’intralcio, ma non per bigottismo, semplicemente perché era sempre preoccupata per la mia salute. Come ho detto ero molto gracile, quindi mi faceva indossare maglie di lana fino all’estate. Per uscire a giocare a calcio adottavo uno stratagemma: mettevo una maglietta e un pantaloncino dentro una busta di plastica, la buttavo giù dal balcone e dicevo a mamma che uscivo a fare un giro. Poi scendevo, recuperavo la busta, mi cambiavo e andavo a giocare a calcio con gli altri ragazzini. All’inizio c’era un po’ di distacco, ma appena si rendevano conto che spesso ero più forte di loro, volevano sempre giocare con me. Mi è capitato a volte che mi chiedessero ‘ma perché giochi a calcio? Sei un maschio?’. Io non capivo, rispondevo: ‘sono una femmina che gioca a calcio, non mi vedi?’. Poi quei bambini sono diventati adulti e oggi molti di loro me li sono ritrovati a giocare a Walking Football, uno sport che per le donne ho portato io in Italia. E anche lì mi hanno detto: ‘ah, ma quindi le donne giocano a calcio camminato?’. Un po’ mi fa ridere, ma questo è il sostrato culturale”, ha concluso. “Da qui la parola che vuoi che si usi per parlare del tuo ruolo, coach?”, “sì, certo, sono una coach, mica un mister!”.
A quel punto, ho deciso di tornare alla carriera di Elena e di avvicinarci al presente: “Come hai conosciuto la società del Siena?”, le ho chiesto. “Mi hanno contattato, credo, perché, tra i mille giri che ho fatto, ho lavorato in Svezia come allenatrice. Credo che gli sia capitato tra le mani il mio profilo e un giorno ho ricevuto una chiamata da Jenny. Ci siamo poi incontrate in presenza, lei continuava a scorrere davanti a me un sacco di slide che raccontavano il loro progetto, ma io dopo poco le ho detto: chiudi il pc, perché nei tuoi occhi vedo il doppio di quello che mi stai facendo vedere. Insomma, andai via da quell’incontro con un’energia spaventosa”. E poi siamo arrivati ad oggi, alla neosquadra bianconera che si è formata e che è stata presentata ai tifosi pochi giorni fa. “Le ragazze sono molto diverse”, mi ha detto Elena, “l’amalgama si costituirà piano piano, sicuramente in questo mi affiderò molto anche a giocatrici di esperienza umana e calcistica come Giulia Ferrandi. Per me la componente umana è fondamentale. Il mio obiettivo da un punto di vista sportivo è vincere il campionato, perché penso che una società come questa e una piazza come questa meritino palcoscenici importanti. Voglio proporre un bel gioco, noi abbiamo davvero una buona squadra, ma sicuramente ce ne saranno altre. A livello personale, invece, a me interessano moltissimo i rapporti umani, al di là dell’allenamento e dei risultati in sé”. Ho colto allora l’occasione per dire ad Elena ciò che avevo notato fin dai primi momenti: la sua attenzione per le parole usate in allenamento: “sì, in campo il registro linguistico lo voglio tenere alto. È una scelta mirata. Comunicare etimologicamente significa mettere in comune e io credo tantissimo in questo. Quando vado in campo cerco di mettere in comune le cose che so con le persone che ho intorno. C’è uno scambio. Io dico sempre loro che quando giochiamo a calcio dobbiamo provare amore per quello che stiamo facendo. Che sia con un bercio [sì, dice proprio “bercio”] o che sia con una parola d’incoraggiamento. Cerco anche di ascoltarle molto. Certo, si perde un po’ di tempo, ma alla fine ripaga”.
In conclusione, ho chiesto ad Elena se conosce bene Siena. “Artisticamente non vedo l’ora di scoprirla. È perfetta per me che ho studiato arte medievale. Calcisticamente l’ho frequentata poco. Ci ho giocato tre partite con la Nazionale under 19 qualche anno fa. Non so cosa aspettarmi ma ho condiviso da subito la scelta della società di non comprare un titolo di Serie C o di Serie B. Si può fare, si spendono tanti soldi ma molte società lo fanno”. Le ho detto che ero d’accordo e lei mi ha chiesto se avevo notato la maglietta che indossava il giorno della prima conferenza stampa. Non ero stata abbastanza attenta, ho ammesso e ho domandato perché. “C’era scritto earn it on the pitch. Guadagnalo sul campo. Questo voglio fare a Siena. È una bella scommessa, ma sono qui per questo”, ha concluso.
Dopo l’intervista, sono rimasta a guardare l’allenamento. Tornando a casa, l’immagine che mi è rimasta in testa è lei con la maglia bianconera che sorride alle sue nuove giocatrici e dà loro indicazioni con le vocali chiuse lombarde ma una gran quantità di parole toscane: giuro di averla sentita dire dura asserpentata. Alle sue spalle si ergeva, come sempre, San Domenico: l’arte medievale e il calcio. Sicuramente è un caso, ma a volte le cose sembrano proprio incastrarsi nel modo giusto.
Aurora Codogno